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/Storia della moda

Après moi, le déluge

Voglio essere franca con voi: in questo post sarò dichiaratamente di parte.
La prima cosa che mi sono regalata per la laurea è stato Una grande storia italiana. Valentino Garavani, il lussuoso volume edito da Taschen in occasione dei 45 anni di moda di questo signore nato a Voghera, ma che ha avuto come sue patrie 
d’elezione Roma e Parigi.

Un’edizione avvolta da una coperta rossa.

Non un punto di rosso qualsiasi, ma quella tonalità che ormai è entrata nel linguaggio comune come Rosso Valentino, esattamente come il Rosso Tiziano e il Rosso Venini.











Degno accompagnamento di questa libro è il film Valentino. The last emperor, un docufilm che ritrae i momenti cruciali della tormentata vicenda della maison alle prese con la cessione dell’azienda.

Con una lucidità spietata, il regista M.Tyrnauer cristallizza il tramonto di un’epoca: la moda come arte e regno del Bello e del Ben fatto cede il posto al business dei grandi gruppi finanziari d’Oltralpe e dei ricchissimi compratori di lingua araba.

"La creatività è difficile da spiegare, è come una forza interna, un entusiasmo che non si spegne mai e che mi trasmette la forza di lavorare sempre in modo nuovo. Guardando le cose, le persone per strada, la fanstasia cammina e l’idea prende corpo attraverso la matita".

Gli inizi di questo genio della couture assomigliano molto all’apprendistato dei giovani nelle botteghe dei grandi maestri dell’arte quattrocentesca italiana: trasferitosi a 17 anni a Parigi grazie al sostegno di genitori lungimiranti che lo assecondano nella sua passione per la moda, Valentino è prima “a bottega” da Jean Desses e poi da Guy Laroche.
Tornato a Roma, dopo alcune stagioni non felici e l’incontro di Giancarlo Giammetti, il 29 luglio 1962 Valentino partecipa alle sfilate fiorentine di Palazzo Pitti, allora punto di riferimento della moda Made in Italy.
Al temine della sfilata, “i buyers americani si strappavano i vestiti dalle mani”.
Valentino diventa in poco tempo La Rolls Royce della moda, come lo definisce Eugenia Sheppard sull’International Herald Tribune, e lo stilista più amato dal jet set internazionale: Farah Diba fugge dal suo impero indossando un Valentino; Liz Taylor incontra Richard Burton indossando un Valentino; Jackie Kennedy sposa Onassis con un abito della sensazionale collezione bianca della P/E del 1968.
Proprio lei è tra i maggiori artefici del successo dello stilista, come racconta Gloria Schiff, senior editor di Vogue dal 1963 al 1971: “Una mattina, qualche tempo dopo l’assassinio di Kennedy, la vedevo triste. Si sentiva molto sola e depressa. Mi disse “Sinceramente, anche se avessi voglia di uscire, non avrei niente da mettermi”. Io le risposi: “Valentino è in città e so che sarebbe felice di mostrarti qualcuno dei suoi abiti. Se ti fa piacere, posso chiamarlo”.
Lui colse al volo l’occasione e si recò nell’appartamento di Jackie insieme alla sua modella. Caso volle che la taglia degli abiti le andasse a pennello. Da quel momento, si innamorò degli abiti di Valentino, ne acquistò moltissimi, ricominciò ad uscire e iniziò a riprendersi”.
Tanto grande era la stima che Jackie aveva di Valentino che una volta gli disse: “Adoro il suo lavoro e lei mi piace moltissimo. E’ una persona eccezionale e la nostra amicizia è qualcosa che mi porterò fin nella tomba”.
L’altra grande artefice del suo successo fu la potentissima caporedattrice di Vogue Diana Vreeland, sua sostenitrice della prima ora.


 

Ci sarebbe tanto altro da scrivere e raccontare, ad iniziare dal binomio straordinario con Giancarlo Giammetti al legame simbiotico con la città di Roma; dalle petites mains (sarte) dell’atelier di Piazza Mignanelli, alle sue abitazioni faraoniche disseminate in tutto il globo.

Fino ai giorni nostri, con l’acquisizione da parte del fondo di private equity Permira nel 2007 e quella più recente da parte della famiglia reale del Qatar.
Nessuno come Valentino Garavani è stato in grado di far innamorare le donne di tutto il mondo.
Segno che tutte le strade, a volte, portano davvero a Roma.

Valentino con Jackie Kennedy e Diana Vreeland

Lo stile resta

“Per prima cosa, io non disegno, non ho mai disegnato un vestito. Adopero la matita solo per tingermi gli occhi e scrivere lettere. Scolpisco il modello, più che disegnarlo. Prendo la stoffa e taglio. Poi, la appiccico con gli spilli su un manichino e, se va, qualcuno la cuce. Se non va, la scucio e poi la ritaglio. Se non va ancora, la butto via e ricomincio da capo. In tutta sincerità, non so nemmeno cucire”.

 

Questa ragazza orfana con il soprannome di Cocò, tratto dal motivetto Qui qu’a vu Coco dans l’Trocadéro, grazie agli incontri fortunati prima con l’ufficiale della cavalleria Etienne Balsan, poi con l’inglese Arthur Chapel, soprannominato Boy, riuscì, partendo dai cappelli, ad estendere la sua piccola modisteria dal n.31 di Rue Chambon (in origine il 21) ai nn. 29, 25, 27 e 23.

Venne anche la volta del più famoso profumo della storia, Chanel N° 5, creato dal chimico della celeberrima città dei profumi Grasse Ernst Beaux, prima fragranza moderna definita astratta, perché realizzata su base chimica.

Al contrario di ciò che si potrebbe credere, il nome del bouquet della fragranza best seller di tutti i tempi fu casuale, come ha scritto la storica direttrice di Vogue Diana Vreeland nella sua biografia:
“Chanel non sapeva come chiamarlo. A rue Chambon erano arrivate parecchie essenze da scegliere; Cocò chiamò uno dei suoi grandi amici russi , un grande aristocratico, e gli chiese: “Aiutami a scegliere (…) Ci sono dieci fazzoletti (…) versa una goccia di campioni di profumo su ogni fazzoletto, e quando l’alcol sarà evaporato, fammelo sapere”. Così fece e Coco prese a turno ogni fazzoletto. Il primo: “C’est impossible!”.Il secondo: “Orrible!”. Il terzo: “Pas encore”. Il quarto :“Non”. Poi, all’improvviso: “Ca va, ca va”.



E’ la morte dell’amato Boy a fargli eleggere il nero,

il non colore per eccellenza, la tonalità preferita

di una vita. 

Solo la seconda guerra mondiale riuscì a farle

chiudere l’attività, ma per pochi anni. 

Il suo atelier riaprì nel ’54.

Chanel aveva 71 anni e la moda un altro idolo,

Christian Dior, che con il suo New look

interpretava la volontà delle donne di svestire

i panni bellicie di riscoprire abiti femminili

e seducenti.

Ma anche in questa occasione Chanel sa rinnovarsi

inventando il tailleur di maglia asciutto della

collezione N.5,adottato subito da clienti come

Jaqueline Kennedy e Grace di Monaco.









Esigente e sprezzante, aveva parole di fuoco per tutti: “Saint Laurent? Povero figlio, non sa cucire. Cardin? Un avventuriero di poco momento. Jean Cocteu? Un piccolo omosessuale snob che per tutta la vita non ha fatto altro che rubare idee dagli altri”.

All’indomani della sua morte, avvenuta il 10 gennaio 1971, il regista Luchino Visconti ebbe a dire: “Con lei sparisce tutto uno stile di vita: quella del talento esclusivo, della suprema raffinatezza, dell’eleganza autentica. Una personalità come la sua non esisterà più”.
Dopo alterne vicende, solo nel 1982 verrà nominato il suo degno successore Karl Lagerfeld, l’unico che, seppur provenendo dalla nordica Amburgo, ha saputo interpretare uno degli aforismi più noti della stilista: “La moda passa, lo stile resta. Lo stile è come un albero: resta identico, ma si rinnova”.
Lagerfeld ha reinterpretato, attualizzando e non snaturando, i pezzi forti creati dalla fondatrice della maison.

Perché di Mademoiselle ce n’è una sola.


Sembra incredibile che da questa donna siano nati molti fra i grandi miti intramontabili del guardaroba femminile, quei passepartout che ogni madre raccomanda alla figlia di comprare come investimento per il futuro.
Sono talmente tanti che li elenco brevemente:  il tessuto jersey, il cui utilizzo rimane una delle innovazioni più sensazionali del panorama dell’alta moda; i tailleur senza collo in lana bouclé profilati in passamaneria; la bigiotteria ed i memorabili sei fili di perle – vere o false le pietre andavano bene comunque, perché :"Il gioiello ha un valore colorato, mistico, ornamentale: tutti valori che non si esprimono in carati (…), Il gioiello non è fatto per provocare invidia, ma al massimo stupore”-; il petite robe noir, il modello #817 – Vogue nel numero del I ottobre 1926 consacrò questa creazione paragonandola all’ultima automobile Ford, annunciando: “Voici la Ford signée Chanel"; i bottoni gioiello; le scarpe bicolori da calcagno scoperto; la borsetta 2.55 in nappa trapuntata con la tracolla a catena.

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